8.8.04

Va in onda la Superstoria

Se qualcuno avesse ancora dei dubbi in merito all’incidenza dello strumento televisivo sulla società italiana e, di converso, la capacità di tale media di essere interprete e riflesso dei grandi fenomeni sociali ed economici degli ultimi decenni, potrebbe trovare quantomeno interessante la visione di un articolato programma realizzato – e trasmesso settimanalmente – dalla “solita” RaiTre (emittente ricorrente in questa rubrica quale serraglio di pregiati, ed estremanente rari, esemplari di fauna televisiva) dal titolo ambiguo e fuorviante: La Superstoria.
Arrivata alla sua seconda edizione, la trasmissione non si occupa di Storia – con la ‘s’ maiuscola - accademicamente avvizzita e un po’ stantìa (come il titolo potrebbe erroneamente indicare) ma affronta puntata per puntata un’ampia tematica massmediologica (la religione catodica, la libertà di espressione, il calcio giocato e parlato, la canzonetta italiana e le proprie parodie) vissuta, scandita e soprattutto interpretata attraverso l’occhio impietoso della satira televisiva di ogni tempo, specchio di una società, in fondo, sempre uguale a se stessa.
Rivedremo, fianco a fianco in una trasmissione costruita come un reportage, personaggi che hanno caratterizzato epoche per la loro personalissima interpretazione (critica o sarcastica) di tematiche sociali, o perché replicanti i tic di altri personaggi televisivi in voga in un dato periodo storico (in un cerchio infinito di autoreferenza, tipico del media televisivo). Icone di un passato che a volte, per fortuna, ritorna (i duetti Goggi-Noschese ammiccano alla coppia Cortellesi-Fiorello), si alternano a massicce dosi di Guzzanti (Corrado, indiscusso protagonista della satira dell’ultimo decennio) e altri testimonials (Albanese, Vianello-Mondaini, Loy, Rossi) che, cedendo improvvisamente la scena a spezzoni di inchieste giornalistiche “vere” (alcune, indimenticabili, di Ugo Gregoretti), compongono un quadro d’insieme intelligente, non convenzionale e, in fondo, ciclicamente un po’ inquietante.
Ci ritroveremo ogni volta, infatti, a meditare sui nostri vizi e sulle nostre virtù così stereotipate, sulla nostra fisionomia di italiani arraffoni e opportunisti (ma, in fondo, “brava gente”), timorati di Dio ma profondamente indulgenti nei confronti di noi stessi. Un quadro amaramente divertente, concluso puntualmente da un’emozionante sigla che solo il miglior Gaber poteva offrirci (“C’è solo la strada”).